Wednesday, September 13, 2006

Tänzer durch die einsamkeit (Film Dienst)




article published in one of the biggest film magazines in germany (Film dienst)

Zu den Entdeckungen des wettbewerbs gehörte auch der portugiesische Beitrag "Body Rice": ein film, der in die 1980er jahre zurückführt und den Alltag in einem Erziehungscamp für junge, straffällig gewordene Deutsche rekonstruiert. Hugo Vieira da Silva erzählt aus der Prespektive eines der betrofenen Mädchen und stülpt deren nihilistische Weltsich in langen, quälenden, vorwiegend, graublau getönten Einstellungen inszenatorisch nach auBen- unvergesslich ein endlos wirkender Tanz vor einer Batterie von übermannsgroBen Lautsprechern oder das Spiel des Mädchens mit einer kopflosen Roboterfigur am Strand: Ausdruck von Sensucht nach Nähe und Verzweiflung zugleich. Ofensichtlich ist "Body Rice" von Arbeiten solcher regisseure wie Pedro Costa, Béla Tarr oder Fred Keleman inspiriert worden: Meistern der Endzeitstimmung.

Ralf Schenk
Film Dienst
(Das film-magazine)
19/2006
14. september.2006

Friday, September 08, 2006

Alessandro Aniballi (cinemavvenire)

Classificação: 7 (0-10)


Body Rice- Incubus Succubus
mercoledì 30 agosto 2006 di Alessandro Aniballi


Body Rice, prima opera di finzione del cineasta portoghese Hugo Vieira da Silva, è un curioso esperimento anti-narrativo, che costruisce il suo fragile equilibrio innestando una piccola comunità di tedeschi alla deriva nel sud del Portogallo, precisamente ad Alentejo.Il film, presentato nel concorso principale alla 59ª Edizione del Festival Internazionale del Film di Locarno, dove è stato gratificato da una menzione speciale della giuria, è prodotto dal prolifico Paulo Branco, mente geniale di praticamente tutto il cinema portoghese, a partire da quando nel lontano 1979 produsse Amor de Perdição, il capolavoro della svolta nella carriera di Manoel de Oliveira.La curiosità verso Body Rice nasce già dall’accostamento di due culture, quella portoghese e quella tedesca, per noi così distanti, per procedere poi con il rapporto straniato tra i personaggi e tra figure e sfondo e, quindi, per il modo distorto con cui l’immagine si predispone alla partecipazione spettatoriale.Da Silva ha tratto spunto da un programma di rieducazione che aveva corso tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quando ragazzi tedeschi sulla via della perdizione, affumicati da alcool e droghe, venivano spediti in Portogallo per un programma atto a recuperarli alla vita sociale.Data una traccia siffatta, dei narratori tradizionali avrebbero fatto faville con tanto di re-Bildungsroman, e riscoperta della vita; invece Vieira da Silva taglia con ferocia ogni presunto spunto salvifico e lascia cadere la sua protagonista, Karin (Sylta Fee Wegmann), in un Portogallo tutt’altro che accogliente, anzi quasi del tutto desertificato, una terra di nessuno, dove camminando ci si ritrova ogni cento metri a imbattersi in improvvisati rave party.Karin è una afasica-apatica e chi la incrocia o è come lei oppure la ignora come se si trattasse di un animale randagio o, anche, la utilizza come complice per piccole ruberie in alimentari a gestione familiare, che non possono che finire male.Ma lei non viene punita, perché è al di fuori, è come se non esistesse. Non è la noia del vivere che la sgomenta, come qualcuno ha detto, è qualcosa di molto più radicale: è l’ottusità, l’atarassia, l’ottundimento che la rende incapace di qualsivoglia relazione.E il regista giustamente decide di seguire il suo personaggio senza imbellettargli il contorno. Quindi ha costruito il suo film con riprese in macchina fissa e lunghi estenuanti carrelli a seguire il vagare randagio senza speranza della ragazza.Chiaro che non vengono piazzati appigli all’identificazione, ma magari in certi frangenti si può sperare che qualcosa cambi nella nostra an-eroina: un uomo viene preso da un attacco di epilessia e avrebbe bisogno di qualcuno che lo tenga stretto, Karin con moltà difficoltà prova a farlo, ma presto è costretta a rinunciare, del tutto schifata dal contatto umano. Su di un piano opposto, è persino impossibile per lei cercare di perdersi ulteriormente, cercare l’abiezione o l’umiliazione. Prova a offrire il suo corpo per qualcosa di insignificante o meglio proprio senza motivo e non ci riesce. Non sa, non conosce più le regole del comportamento umano, neanche della peggior specie. E Body Rice è un film su un corpo inadatto, chiuso in se stesso. Addirittura, la possibilità di una breve riconciliazione si propone solo con un pupazzo animato, al quale la ragazza chiede dei gesti di azione-reazione, ma il pupazzo non capisce e continua nel movimento a carica, che ritorna sempre uguale.Karin trova una compagna in Julia, in tutto simile a lei e, infatti, quando dice di essere incinta, lo fa ipotizzando una prospettiva di cambiamento al quale da subito è vano credere.È l’uomo alla fine della sua storia, che non sa più procreare, che arriva all’annichilimento totale.In questo contesto Vieira da Silva riesce anche a inserire frammenti dalla liberazione della Germania, la caduta del Muro, quasi volendo allargare il campo del suo discorso anche a una congiuntura storica, per cui la generazione perduta dei giovani tedeschi degli anni Ottanta è come se fosse stata tutta esiliata per rimettere le cose a posto in funzione della nuova Germania unita. E si potrebbe anche ravvisare nell’afasia di Karin una incapacità di riconoscersi, l’incapacità di costruire una identità al nuovo tedesco che nasce dalle macerie del Muro.Ma tutte queste sono supposizioni che restano comunque sullo sfondo di un discorso, quale quello di Hugo Vieira da Silva, che riserva il suo interesse non nella storicizzazione, quanto nella universalità, per la de-cognizione del dolore di un corpo sfatto, e da qui si rivela anche un importante saggio di come il cinema possa liberarsi a volte dai lacci narrativi per dare rilievo al movimento (sia pur senza direzione precisa) che è insito alla sua ontologia.Certo, non basta piazzare la macchina da presa e lasciarla andare, ci vuole anche sapienza in quello che si fa, e Vieira da Silva dimostra di saperci fare. Pensiamo all’ultima scena, in cui cinque-sei personaggi sono racchiusi nello strettissimo spazio di un camper, stravaccati a bere birra e a fumare. Le sigarette passano lentamente di bocca in bocca, le bottiglie di birra altrettanto, mentre il corpo dell’uno che ostacola il corpo dell’altra viene spostato come un peso morto. È una scena meccanica e poetica insieme, in cui il movimento racchiuso in così pochi metri e con tale apparente naturalezza, si mostra come un alto momento di cinema, di in-azione cinematografica.Un’ultima menzione per la traccia finale della colonna sonora, Incubus Succubus, una strabiliante hit degli anni Ottanta, che rende in pieno l’atmosfera del film.

cinemavvenire.it
1 sept. 2006